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Sistema bancario, cultura d’impresa e contratto

 

La regressione contrattuale è l’espressione della massima debolezza dei banchieri

 

Foti

Franz Foti (foto Varesenews)

(di Franz Foti*)Le cinque debolezze. Ormai sappiamo tutti quanti che di fronte alla nostra prospettiva ci sono cinque pesanti “debolezze” che andranno corrette tempestivamente per definire nuove strategie, strumenti e livelli di responsabilità per fronteggiare il presente istituzionale, economico e sociale, pericolosamente in declino e l’incertezza del futuro.

La prima debolezza che registriamo è quella di “sistema”, intendendo con ciò l’insieme delle regole che il potere esecutivo e legislativo – politica e partiti – mettono in campo per regolare i rapporti sociali e produttivi utilizzando la micidiale macchina della burocrazia.

La seconda debolezza riguarda il comparto industriale e dei servizi – banche comprese – che, a partire dalla seconda metà degli anni ’80 e con il declino della grande impresa, non ha saputo essere soggetto autonomo e progettuale nella realtà della globalizzazione e dell’esaltazione del “piccolo è bello” e non ha ben interpretato la nuova articolazione dei bisogni produttivi e sociali.

Carenza d’investimenti e ricerca, di processo e di prodotto, hanno poi fatto il resto. Questa debolezza potremmo definirla eufemisticamente “scarsa lungimiranza”, “carenza intellettuale”,  “deficit d’immaginazione”. Brutalmente potremmo invece tradurla come spiccato senso della mediocrità.

La terza debolezza è rappresentata dal degrado morale sempre più cinico ed “egotico” (occuparsi di sé infischiandosene degli interessi altrui). Parliamo di degrado istituzionale, etico e d’impresa, delle forme del consumo, della funzione della finanza, dell’uso del mercato  cui potremmo aggiungere il degrado provocato dall’uso distorto e strumentale dell’informazione e del web.

La quarta debolezza è quella sindacale. Il sindacato con la caduta della grande impresa, la frammentazione produttiva e sociale e il tramonto della “classe in sé”, concepita come progetto generale di società, della società perfetta e libera dal lavoro, ormai sostituita dal concetto di “classe per sé”, ripiegata sugli interessi di settore e di azienda, perde peso e influenza politica.

Ora siamo entrati nell’ottica della società che si libera con e nel lavoro e non più dal lavoro. Viene ad affermarsi sempre più l’idea che si possa cambiare il lavoro nel lavoro e che senza di esso si cade nella barbarie.

Le sofferenze derivano dalla mancanza di lavoro e non dalla presenza di lavoro. Ci si trova nel paradosso che “la Minaccia” diventa progetto di sopravvivenza. L’impresa da una parte, che Minaccia solo tagli, diffusione tecnologica come differenziale professionale e occupazionale,  licenziamenti, esternalizzazione di attività per demansionare e  ridurre costi di produzione reintroducendo il nuovo e brutale concetto padronale della “sottomissione”  targata 3.0. Dall’altra parte il sindacato, che deve obbligatoriamente mobilitare, difendere, occupare spazi di visibilità e contrasto per evitare la disumanizzazione del lavoro, intesa come spoliazione della dignità della persona che rappresenta la condizione primaria della civiltà.

La quinta debolezza è raffigurata dalla cultura d’impresa. Nel settore bancario la vera cultura d’impresa in questi ultimi anni ha faticato a rendersi visibile. Si è manifestata piuttosto una cultura o meglio  un’incultura della managerialità con la quale si è identificato il sistema bancario nel suo insieme. In sostanza c’è stata solo una cultura della leadership e dei relativi stratosferici compensi e una corsa sfrenata a coprire i buchi che questi manager  di settore hanno contribuito a creare.

Le strategie attuali e le visioni del futuro bancario sono ancora ferme alle prossime emissioni di moneta di provenienza europea – BCE- per completare il processo di risanamento dei bilanci. Definire la cultura d’impresa oggi, soprattutto nel sistema bancario è come guidare a fari spenti in pieno buio.

La cultura d’impresa è quella condizione che riesce a coniugare usi e costumi, libertà soggettiva e collettiva nel lavoro, intelligenza innovativa e ricerca, creatività, intreccio di bisogni esistenziali e lavorativi, interazione e integrazione fra direzione e popolazione d’impresa (comunicazione e ascolto). E’ facilitazione della motivazione, alimentazione della passione, diffusione di valori improntati alla trasparenza e all’onestà, legame con i bisogni del territorio e del Paese, capacità di sviluppo produttivo, stimolazione e valorizzazione continua delle risorse umane.  Ho tralasciato per ultimo un elemento importante come la fiducia che costituisce il fattore decisivo per la reputazione di un istituto di credito.

Il contratto di lavoro. Dunque c’è una fragilità estrema del sistema Paese, delle imprese, delle istituzioni, della politica e dei partiti aggravati da pratiche corruttive pesanti e c’è una crisi economica e produttiva perdurante, che toglie il respiro. Il contratto di lavoro andrebbe inteso, in questo contesto, come uno strumento di rinnovamento culturale, mediazione fra bisogni economico  sociali e necessità esistenziali, come gestione intelligente della transizione verso sistemi innovativi che riposizionino il valore della persona ancor prima di quello di lavoratore.

Il contratto dovrebbe tracciare nuovi processi formativi e innescare forti motivazioni verso la produttività del lavoro e la crescita professionale per essere più prossimi ai bisogni territoriali delle imprese, dei singoli cittadini e della collettività, servizio per la ripresa del Paese.

Il contratto dovrebbe ricostituire linguaggi, relazioni interne e cultura d’impresa per affrontare le difficoltà del futuro con spirito cooperativo. Il contratto dovrebbe concepire la riduzione dei dipendenti a disoccupati o a demansionati come una forma di deprecazione morale in presenza di politiche imprenditoriali responsabili di spreco del denaro accumulato nel sistema bancario proprio da quei soggetti e da quelle famiglie che ora si vuole andare a colpire, coprendo ancora una volta il vuoto strategico che pervade i banchieri nostrani e non solo loro.

Il contratto dovrebbe rappresentare il “legante” fra vecchie e nuove generazioni, accompagnando i cambi di clima con l’intelligenza che serve e con il consenso sociale che i tempi richiedono.

Il contratto dovrebbe fungere da rigeneratore di coscienza civile e di passioni sia nel versante dei lavoratori sia in quello degli imprenditori.

Il contratto è una forma educativa alla conoscenza che consente di essere protagonisti attivi del cambiamento e della vita attiva lavorativa e contribuisce a ritessere il filo spezzato dalla crisi e dalla sua virulenza rinegoziando e riposizionando le relazioni interne – il rispetto del lavoro e della persona – come una forma di welfare aziendale a costo zero sotto il profilo psichico, economico e sociale, valore aggiuntivo fisico e mentale.

La negoziazione sindacale paritaria, simmetrica, fondata sul principio della reciprocità solidale, consentirà di riscoprire l’importanza che i valori personali e collettivi rappresentano per la direzione d’impresa.

Il contratto, al contrario, concepito come “Minaccia”, è un puro e semplice atto di violenza civile unidirezionale, di carenza culturale, un segnale di debolezza, una manifesta condizione di primitivismo aziendalista.

(* Docente Comunicazione istituzionale Università dell’Insubria)

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Mauro Carabelli

Giornalista

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