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Cineforum: SINNO’ ME MORO

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(mc) La canzone “Sinnò me moro” cantata da Alida Chelli, apre il film con l’inquadratura della fontana di Piazza Farnese  di Roma e lo chiude con varie inquadrature lungo uno scalone di Viale Roma, ai tempi decrepito,  del comune di Sacrofano distante una trentina di km dalla capitale,  carrellando poi sul volto della bellissima Claudia Cardinale (Assuntina Jacovacci). La canzone chiude il cerchio attorno ad un dramma sentimentale di sangue e di passione, intriso di ipocrisie, misteri e colpi di scena, consumato nell’ambiente popolare romano ai danni di una benestante.  Questi passaggi  della cinepresa che prediligono il contrasto tra il bianco e il nero, tra oscurità e luce, come in un quadro caravaggesco, appartengono al film “Un maledetto imbroglio”  del 1959 diretto e interpretato da Pietro Germi. La trama è una rielaborazione del romanzo “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda. Il film fa da spartiacque e chiude definitivamente la fase neorealista di Germi per traghettare il suo cinema  verso i futuri  lidi della commedia all’italiana. Pietro Germi, tra l’altro, scrisse la canzone con la collaborazione del maestro Carlo Rustichelli padre di Alida Chelli.

Ritengo sia doveroso ricordare questo grande regista e attore (Genova, 14 settembre 1914 – Roma, 5 dicembre 1974) pietra miliare della nostra cinematografia. Non sempre citato come meriterebbe. Delinearne stile, carattere e visione della vita è un’impresa abbastanza problematica viste le tante sfaccettature che hanno composto la sua carriera di regista, sceneggiatore, attore, commediografo, produttore cinematografico e televisivo. Posso solo tracciare brevemente un filo conduttore della sua espressione artistica dove  pellicole neorealiste di stampo drammatico e dalla forte critica sociale tra cui “In nome della legge”, “La città si difende”, “Il ferroviere”, “L’uomo di paglia” evolvono in quelle più satiriche sui costumi dell’Italia degli anni ’60. A questo proposito vorrei ricordare tra i suoi capolavori “Divorzio all’italiana” e “Sedotta e abbandonata”, critiche corrosive, con momenti di irresistibile ilarità, verso una società  incapace di scuotersi e di abbandonare le proprie convinzioni secolari. “Divorzio all’italiana”  gli valse il Prix de la meilleure comédie alla 15ª edizione del Festival di Cannes e il Premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 1963.

Pietro Germi fu sempre critico nei confronti di certe convenzioni sociali originate dalle classi più abbienti. Ma non risparmiò anche la complicità individuale degli appartenenti alle classi più popolari, attirandosi pure le critiche dell’intellighenzia progressista dell’epoca e dello stesso PCI.  Nel giallo “Un maledetto imbroglio” il regista dà un’amara descrizione della Roma piccolo e medio borghese ma anche di quella proletaria e “burina” dei principali protagonisti, anch’essi colpevoli per la loro rozza avidità, seppur giustificati dallo loro stessa ignoranza.

Nella sequenza finale, sulle note di “Sinnò me moro”, il disincantato ma coriaceo commissario Ingravallo, interpretato dallo stesso Germi con degli inconfondibili occhialoni neri, mette alle strette la giovane Assuntina Jacovacci (Claudia Cardinale) e procederà all’arresto del suo compagno Diomede (Nino Castelnuovo) autore materiale del delitto, risparmiando però la giovane donna, complice morale, sapendola incinta. Il finale con la rincorsa di Assuntina dietro l’auto della polizia con la polvere che dissolve in chiusura la sequenza è probabilmente l’ultima citazione neorealista di Germi che ricorda, quasi in fotocopia, quella di  “Roma città aperta” di Roberto Rossellini e quell’urlo disperato, passato alla storia, di Pina (Anna Magnani) che corre dietro al camion su cui i nazisti stanno portando via il suo uomo.

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Mauro Carabelli

Giornalista

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