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L’IO SENZA LIMITI

SCIENTISMO

Contenere un io senza limiti? Già aveva provveduto il greco dell’antichità che, per fronteggiare la tragicità dell’esistenza, ne aveva proiettivamente  circoscritto la follia dionisiaca, gli eccessi, meglio dovremmo dire i capricci degli dei, contenendoli nell’ordine estetico, luminoso e apollineo o nella saggezza coraggiosa e strategica di Atena. Un equilibrio quasi perfetto, solo rotto  riflessivamente  all’interno della tragedia greca, ma ben arginato nella volumetria del teatro e nei frutti di ciascuna azione ricordati dai corèuti. La collettività della Polis assaggiava le drammatiche pluriambivalenze dell’avventura umana e rifletteva. Tale autocoscienza aiutava  la r/esistenza della città -stato che non poteva permettersi eccessivi scivolamenti verso una libertà incondizionata ma, ben presto, nemmeno le soffocanti chiusure delle rigidità normative  di cui fu vittima consapevole lo stesso Socrate. Tuttavia, la filosofia, che si mosse

da questa culla, già con Aristotele non era avvertita, sebbene  l’etimologia lo suggerirebbe, solo come amore per la sapienza. Per il filosofo l’insieme di tutte le attività umane, pratiche e conoscitive provenivano da thauma, traducibile come “l’angosciato sgomento”. E poiché tutte le attività conoscitive nascerebbero dall’angosciato sgomento, pure la filosofia prenderebbe le mosse da lì. E’ altrettanto vero che tutta la gamma semantica della parola thauma indichi anche la “meraviglia”. Ma non è da intendersi come una esperienza estatica di fronte all’incomensurabile bellezza dell’universo bensì uno stato emotivo sganciato da qualsiasi appiglio che toglie la parola e il fiato di fronte all’imponderabile di cui puoi cogliere solo insondabile mistero, silenzio eterno, impossibilità a definirlo e gestirlo. Non a caso, thauma è utilizzato da Omero nell’Odissea, nell’incontro di Ulisse con il “monstrum” Polifemo. La mostruosità, per esteso, è il carattere paradossale della vita che noi siamo. La filosofia, dunque, nasce dal terrore della vita destinata ad annichilirsi, non tanto dalla meraviglia astratta  che può provare lo studioso. Le radici di tutta quanta la filosofia e dei miti occidentali  sprofondano in questa inevitabile constatazione e si diramano in costruzioni sofisticatissime per  definire quell’episteme capace di spiegare e vincere la finitudine dell’Uomo, la sua malattia, la sua morte. L’io si dibatte da millenni dentro questo conflitto in tensione tra la volontà di potenza da una parte e dall’altra dal crollo dell’impossibile permanenza dell’esistenza individuale. Il paradosso è che più aumenta la potenza dell’io attraverso gli strumenti della tecnica, più fragile diventa la sua presenza. E, a mano a mano, che l’io si affaccia sul limite ultimo della sua esistenza, quand’anche la morte venisse rimossa e accantonata ai margini dell’enorme macchina come insignificante incidente di percorso di ciò che viene prima e continua dopo, il nulla si impadronisce inesorabilmente di lui. Le opposte sponde del positivismo più o meno dialettico e deterministico, e dell’esistenzialismo più o meno eroico e nichilistico,  si sono declinate su questo identico terreno. Andrebbe segnalata un’altra descrizione dell’illusoria padronanza dell’io sul “non io” con un breve riferimento alle ricerche psicoanalitiche freudiane e junghiane e relative scuole. Al di là delle diverse disposizioni topiche sostenute dai due autori, l’io non è “uno” ma articolato su più livelli di cui quello più consapevole, gonfio e razionalizzante fino a deliri di onnipotenza, altro non è che una minuscola appendice informata da profonde pulsioni e maree archetipiche talmente preponderanti ed esuberanti da depotenziarne la presunta stabilità.   È incontestabile, salvo non rimanere in una costante illusione, che la scienza e la tecnica più si potenziano più mostrano la fragilità dell’essere che tendono ad incorporare. Basta poco per mandare in frantumi qualsivoglia certezza dell’io sebbene un’attenuante al procedere del tecnologismo e dello scientismo è l’ammissione che i  processi empirici  li rendono “quasi” ma mai definitivamente vicini alla “verità” nel senso più profondo e valoriale del termine. L’arte medica, per esempio, utilizza il metodo sprimentale cioè il continuo controllo e la rivalutazione critica del fatto che le ipotesi siano coerenti con le osservazioni sul campo. Ma, similmente nel caso dello scientismo applicato alla tecnica, il metodo sperimentale continuo per definizione non può porsi dei limiti ma relativizzare spesso drammaticamente i confini etici che l’umanità si è data da secoli per autoconservarsi. Ed è proprio il caso di sottolineare che  il dramma esistenziale che oggi si sta consumando  è anche la conseguenza della ricerca filosofica degli ultimi due secoli che ha legittimato l’illimitatezza dell’agire umano attestando l’impossibilità di valori Eterni al di sopra del divenire. La morte teoretica di Dio è infatti il miglior terreno che avvalora l’illimitato procedere scientifico. Non a caso, è proprio la filosofia degli ultimi due secoli a suggerire  alla tecnica che essa non abbia alcun limite assoluto davanti a sè. Secondo la lezione di Emanuele Severino, se la filosofia suggerisce alla tecnica di essere illimitata, essa potrà non sottostare al comando delle varie forme, soprattutto valoriali, della residuale cultura epistemica occidentale e dei suoi miti mostranti i tempi originari, fondamentali ed eterni della natura e del nostro Essere. In questo deserto relativistico si gioca anche il presente e il futuro della cristianità aperta alla pietà e alla misericordia, non dominatrice del mondo per non essere dalla polvere dominata. In ogni caso, per uscire dalla logica di un progresso incapace di mantenere la promessa di liberare l’umanità dalle sue angosce materiali e spirituali, è di fondamentale importanza riprendere il lavoro duro e sincero su sè stessi ritornando a “sentire”, nel silenzio paradossale del frastuono relativistico, l’elemento eternamente creativo che tutto sa accogliere e riordinare senza disperdersi. Ovvero, quel Logos amorevole inciso profondamente nell’Essere, capace di muovere “il sole e le altre stelle” da cui ci si è allontanati quando si è voluta abbracciare l’apologia di un progresso gelido senza limiti. Ecco perché da più parti si auspica la riattivazione di un processo metanoico che porterebbe ad una radicale trasformazione dell’Essere. Qual è la via da percorrere e come? Iniziando a bussare e ad aprire le nostre porte. Non solo al mistero ma all’incontro  con chi ri/cerca con noi. Perché questa ricerca dovrebbe stare costantemente non solo alla base delle nostre riflessioni ma nella più semplice pratica quotidiana, immersi come siamo, tra piccole e grandi azioni, nella  gravità di questo mondo.

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Mauro Carabelli

Giornalista

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