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Chi non ha peccato scagli la prima bomba

algeri

(Immagine dal film “La battaglia di Algeri”.

di Mauro Carabelli

“Tre potenti ordigni esplosivi  sono deflagrati quasi simultaneamente in tre luoghi diversi del centro storico. Due  hanno completamente distrutto dei bar frequentati da francesi, in larga parte giovani, causando decine di vittime. Il terzo  è esploso nell’ufficio centrale dell’Air France mietendo morti e feriti fra il personale della compagnia di bandiera e molti turisti. E’ ormai accertato che gli autori degli attentati sono tre giovani donne algerine affiliate al FLN (Front de Libération Nationale) provenienti dal quartiere mussulmano della Qasbah dopo aver eluso i serratissimi controlli dei militari francesi”.

Potrebbe essere questa la nuda e cruda cronaca di un comunicato d’agenzia nell’immediato presente con eventi, circostanze e cifre inquietanti che stanno pesantemente segnando la vita nelle città europee bersaglio della strategia terroristica dell’autoproclamatosi Stato Islamico.

Sono invece 604 battute relative ad alcune azioni terroristiche contro luoghi di raduno o installazioni militari, posti di polizia, magazzini, mezzi di comunicazione che, assieme ai combattimenti sul terreno militare tradizionale, hanno cadenzato per otto anni circa la cronaca di una delle più sanguinose lotte di liberazione o decolonizzazione della storia contemporanea come quella dell’Algeria dall’occupazione Francese.

Il front algérien estese il conflitto alle città interne proclamando un durissimo sciopero generale nazionale non esente da attentati dinamitardi e con epicentro Algeri. La battaglia di Algeri, che venne immortalata dall’omonima pellicola di Gillo Pontecorvo, iniziò il 30 settembre del 1956 ma non fu che l’episodio emblematico di una sanguinosissima guerra che iniziò due anni prima con la cosiddetta insurrezione di Ognissanti e che si protrasse sino al 3 luglio del 1962 quando, dopo alterne vicende – e l’opposizione verso il colonialismo francese da parte di molti intellettuali tra cui Jean Paul Sartre, André Malraux,  François Mauriac, Frantz Fanon –  il Presidente della Quinta Repubblica francese, Charles de Gaulle, proclamò l’Algeria indipendente. La guerra di liberazione costò quasi mezzo milione di morti (un milione e mezzo secondo lo stato algerino) nella maggior parte civili.

Per chi scrive, gli anni Sessanta così ricchi di eventi che sconvolsero il mondo, non sono lontani e nebulosi come probabilmente avviene nei pensieri delle nuove generazioni. E, in un certo senso, la loro continuità e attualità si manifestano anche alla luce di quanto sta capitando nel cuore dell’Europa dove gli attentati di Parigi e di Bruxelles sono dei  barbari accadimenti, incomprensibili e inaccettabili solo perché sono avulsi dalla “vie en rose” a cui il ricco Occidente di casa nostra s’è da tempo abituato.

Il corso della Storia in cui si verificano o si radicalizzano queste crisi, a cui possono corrispondere veri e propri salti epocali, si muove secondo la continuità di una logica profonda e per nulla estemporanea che va capita in tutta la sua estensione. La sostanziale differenza che ci separa dalle cruenti giornate algerine del 30 settembre di 50 anni fa è una sorta di lotta di “decolonizzazione” dello stato islamico dall’intero Occidente tentando paradossalmente di ricolonizzarlo islamicamente anche dal suo interno. Allora,  il FLN esortava il “popolo algerino” e i “militanti della causa nazionale” ad insorgere per la “restaurazione dello Stato algerino, sovrano, democratico e sociale, all’interno dei principi dell’Islam e  per il rispetto di tutte le libertà fondamentali senza distinzioni di razza e di religione”, mentre oggi i raid terroristici  di uno Stato Islamico in itinere avvengono “fuori sede” massacrando, secondo un’interpretazione radicale dello Jihād, uomini e donne di varie nazionalità nelle caffetterie, nei teatri, nelle metropolitane e negli aeroporti  mitteleuropei anziché rimanere confinati solo nei teatri di guerra nordafricani e mediorientali. Differenza di non poco conto ma che è il riflesso anche  della globalizzazione di una guerra senza fine e dalle radici molto lontane che  non poteva non travalicare i formali confini nazionali e che oggi va compresa in un quadro politico ed economico dove a contrapporsi è, come sempre,  la criticità costante di una parte del mondo verso quella più ricca e onnipotente. Diceva profeticamente Sartre: «Quante chiacchiere: libertà, eguaglianza, fraternità, amore, onore, patria, e che altro? Tutto ciò non ci impediva di fare nel contempo discorsi razzisti, sporco negro, sporco ebreo, sporco topo».

Ed è proprio questo il punto: può l’Occidente considerarsi  vittima innocente dell’integralismo islamico e di avere sempre avuto le mani pulite nelle relazioni  politiche, economiche ma anche culturali con il Medio Oriente e il Nord Africa?

In questo contesto, le differenti visioni religiose sono intercambiabili contenitori ideologici capaci di aggregare, disciplinare e orientare l’esasperazione di popoli ma nel contempo nascondere  finalità  egemoniche spesso indecifrabili al di là dell’immagine più o meno accattivante che le forze in campo si vogliono dare. Non a caso, nel corso della Primavera araba – nata per contrastare la corruzione, l’assenza di libertà individuali, la violazione dei diritti umani, valori cioè figli dell’identità sociale e culturale dell’Occidente– l’integralismo islamico ha giocato la sua partita  vincendola tanto da riportare le tradizioni del mondo arabo al potere.

Dunque, senza nulla togliere alla ferocia e brutalità dei tagliagole del Califfato e del suo leader Abu Bakr al-Baghdadi, probabilmente dovremmo anche ragionare sul rapporto di causa ed effetto  dentro cui sembra rigenerarsi inarrestabilmente  una conflittualità che sta mobilitando anche migliaia di foreign fighters, spesso giovani mussulmani di seconda e terza generazione, tremila dei quali provenienti dall’Europa, tutti con i requisiti strategici per colpire il vecchio continente e che hanno individuato nello jihad uno strumento per fuggire dalla disperazione, dal forte senso di inadeguatezza determinato dalla disoccupazione o dalla difficoltà a integrarsi nella società. Questi arrivano a farsi saltare in aria e l’occasione di ribellarsi con ferocia è stata sovente offerta su un piatto d’argento dall’indifferenza, dal cinismo e dalla mancanza di senso in cui si dibatte l’Occidente pingue e consumistico. Ma gli assist più netti sono state le tante imprudenti e poco lungimiranti avventure militari da parte del “primo mondo” nei territori della mezzaluna, che si sono sanguinosamente protratte per decenni a partire dalle occupazioni dei territori afghani sino al collasso del regime libico dove la folle esecuzione di Mu’ammar Gheddafi – autorizzata da una coalizione Nato nella quale ha primeggiato cinicamente la Francia di Nicolas Sarkozy con forti interessi economici e geopolitici – ha allargato i confini del conflitto spingendolo fino alle estreme sponde del Mediterraneo che fronteggiano la nostra penisola.  Pochi mesi prima di essere macellato, Gheddafi disse profeticamente a Blair: “Loro (i jihadisti) vogliono controllare il mediterraneo e poi attaccheranno l’Europa, se cade il mio regime il Paese passerà nelle mani dei jihadisti”.

Ma la madre di tutte le imprudenze e miopie politiche dettate dalle solite mire espansionistiche per controllare la gestione del petrolio,  fu l’avventura militare scatenata il 20 marzo 2003 in Iraq da una coalizione multinazionale guidata dagli USA allo scopo di deporre Saddam Hussein sulla base di un ipotetico (e infondato) motivo di dotarsi di armi di distruzione di massa. Comunque la si giudichi questa guerra condotta contro Saddam Hussein dopo gli attentati dell’11 settembre al World Trade Center di New York,  le origini dell’Isis si concretizzeranno militarmente proprio in questo contesto organizzandosi in “al-Qa’ida in Iraq” poi rinominata “Stato Islamico dell’Iraq”, fondata da Abu Mus’ab al-Zarqawi per combattere l’occupazione americana di questa regione e il governo “sciita” sostenuto dagli Stati Uniti d’America dopo il rovesciamento del “sunnita” Saddam Hussein.

A partire dal 2012 lo Stato Islamico dell’Iraq allargherà la sua influenza territoriale intervenendo nella guerra civile siriana contro il governo di Bassar-Assad – dove in troppi (Russi, Americani, Turchi, Francesi, Sauditi, ecc.) combattono la propria fetta di terrorismo a modo loro, difendendo i propri interessi primari  - e nel 2013, dopo la conquista di una parte del territorio siriano, sceglierà come capitale Raqqa cambiando il nome in Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS).

Da quel momento in poi, accanto ad efferati attacchi terroristici, si sono succeduti in Europa invasioni di proporzioni bibliche, ormai fuori controllo, con migranti in fuga dalle zone di guerra. Decine di migliaia di persone esasperate che l’Isis contribuisce  con il terrore a spingere nel cuore dell’Europa per metterne in difficoltà l’unità degli assetti istituzionali incapaci di organizzare una seria strategia  di accoglimento.

Inoltre, la cronaca di questi giorni, registra il riuscito quanto problematico sbarco a Tripoli di un nuovo governo comandato da Fajez Serraj  e sostenuto dall’ONU e da vari dignitari locali. Sembra però che i libici sostenitori del governo “ribelle” di Tripoli capeggiato da Khalifa Ghwell si siano rifugiati a Misurata. E sempre secondo fonti libiche, anche il presidente del parlamento Nouri Abusahmin avrebbe lasciato Tripoli per rifugiarsi a Zuwara, una regione in cui gli amazigh (berberi) – di cui Abusahmin fa parte – sono la maggioranza della popolazione. Rotta disordinata o preparazione di una controffensiva? Il tempo ci svelerà se il nuovo governo sostenuto dall’Occidente avrà vita lunga o se siamo alla vigilia di una nuova e drammatica guerra civile in cui sicuramente l’Isis saprà pescare a piene mani.

Per concludere, è necessario anche parlare del convitato di pietra rappresentato da Israele. In una recente intervista al britannico Jewish News, il giornalista tedesco Jurgen Todenhofer,  rievoca il suo breve periodo dietro le linee nemiche durante il quale ha potuto parlare con diversi combattenti e dirigenti dell’ISIS. “L’unico paese che l’ISIS teme è Israele – dice Todenhofer – Mi hanno detto che sanno che l’esercito israeliano è troppo forte per loro”. Il punto è capire come mai in questa fase Israele non intervenga con la sua decisiva potenza di fuoco contro lo stato islamico le cui milizie sono presenti anche nella penisola del Sinai. Il motivo è semplice, per Israele il pericolo numero uno è rappresentato dall’Iran e dal suo programma nucleare. Ma si sa che il trasversale e ambivalente pensiero dell’escatologia islamica potrebbe prima o poi superare la divisione tra sciti e sunniti e, sollevandosi come il Ghibli, concentrare le proprie pulsioni belliche contro lo storico nemico di sempre. Ci sarà un Mahdi a decretare la fine dei tempi? Ma Israele è un nemico che nel proprio potente arsenale ha un’ottantina di testate nucleari.

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Mauro Carabelli

Giornalista

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