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La peste in quel di Laveno Mombello

peste nera

(di Mauro Carabelli) Dalla cronaca di Gio Giacomo Rattazzo, piccolo proprietario terriero del ‘600, un’inedita testimonianza della peste bubbonica che falcidiò la popolazione delle comunità lombarde del lavenese e del mombellese durante il periodo spagnolo. Lo scontro tra i conti Borromeo e Cicogna.

Il teatro iniziale delle vicende è quello fra le due sponde del Lago Maggiore comprese in quel Ducato di Milano, il più antico Stato dell’Italia settentrionale, quando i suoi confini si estendevano fino oltre la sponda occidentale comprendendo piccole porzioni del Piemonte, oltre la metà circa dell’attuale Lombardia, il Canton Ticino e la Mesolcina oggi Svizzera, e ancora piccole aree in Emilia Romagna e Toscana.

La storia della famiglia Rattazzo non costituisce una sorta di romanzo storico ma un materiale inedito e veritiero composto da corrispondenza epistolare, riflessioni, episodi descritti spesso in presa diretta lungo un arco temporale di quasi tre secoli, raccolti integralmente e riordinati in alcuni volumi da Alberto Besozzi, che per questa pregevole fatica vinse nel 1974 il Premio Lago Maggiore.

La descrizione che Gio Giacomo Rattazzo fa della Peste è condizionata dalla credenza popolare dell’epoca che vedeva negli “untori” una delle cause della sua virulenza. Tale diceria non era alimentata solo dalla superstizione ma trovava conferma anche nelle teorie di molti “dotti” del tempo. Lo stile narrativo sobrio e diretto dei tragici eventi non assomiglia certo all’armamentario retorico e barocco dell’anonimo scartafaccio a cui Manzoni finge di ispirarsi per raccontare le vicende di Renzo e Lucia.

“(…) e ci giunse notizia che a Milano vi era la peste (…) Il morbo contagioso andava intanto sempre crescendo a causa di polveri e acque pestifere che venivano sparse per la città e per le terre, e furono scoperti molti maghi che diffondevano la morìa con tali incantesimi, tra i quali un barbiere (…) che fu incarcerato, interrogato molte volte e lungamente tormentato, finché confessò d’essere un gran mago e di aver fabbricato un unguento pestifero per far morire la gente.”

La moria toccò il suo apice tra agosto e settembre 1630, momento in cui a Milano, oltre ai viveri, iniziarono a scarseggiare anche i monatti. La peste spopolò Milano e molte aree limitrofe fino ai confini con il ducato. Il Tadino ipotizza nella sola città di Milano circa 165.000 vittime, più o meno la stessa cifra riferita dallo stesso Rattazzo.

“(…) la povera Milano aveva finito col ridursi in pessimo stato. Io stesso ho saputo da molte persone informatissime e degne di fede, che nella misera città morirono circa centosettantamila abitanti, dico centosettantamila, tra cui cavalieri, presidenti, senatori, preti, frati, monache e tanti altri che sarebbe troppo lungo nominare.”

Nulli i dati relativi ai morti nel resto della Lombardia. Ma abbiamo quelli forniti dalla testimonianza di Gio Giacomo Rattazzo relativi alla comunità di Mombello e di Laveno che allora contavano ambedue circa duecento abitanti.

“ (…) contando paesani e forestieri, tra il 1630 e il 1631 perirono a Mombello cento persone (…) Il morbo riprese a serpeggiare (…) mietendo nel sol Laveno, ben centotré vittime.”

LA PESTE RAGGIUNGE LAVENO

Com’è noto, i territori lombardi furono colpiti dalla peste o perché inizialmente attraversati e saccheggiati dalle milizie tedesche o perché raggiunti in un secondo tempo da tanti che fuggivano dalla peste di Milano per riparare in campagna. E’ probabile che la pestilenza raggiunse Laveno portata da qualche poveraccio in fuga dal capoluogo ducale ma provvisto di non pochi espedienti.

“Una sera si presentarono alcuni portatori di carbone di Milano alla porta dello steccato di Laveno, guardata con altri soldati da messer Marzolo, il quale disse: ‘Voi non potete entrare perché provenite da Milano, città infetta! (…) Ma i carbonai insistettero, dicendosi immuni dalla peste e dal contagio, perché ogni sera, prima di coricarsi, si spalmavano il corpo di un unguento preservativo. Udendo ciò, messer Marzolo disse: ‘Se mi date un po’ di quell’unguento, io vi permetterò di entrare’. Essi acconsentirono subito e gli diedero un vasetto insegnandogli la maniera di usarlo. (…) Stupiti del suo imprudente comportamento, i lavenesi lo esortavano alla prudenza (…) Ma lui rispondeva di non curarsi della peste, avendogli un amico fornito un preservativo che lo immunizzava sia per il presente che per il futuro. Quanto sopra accadde attorno all’8 luglio, e pochi giorni dopo messer Marzolo morì, seguito dalla sorella, dalla moglie e dai figli, sicché il suo focolare e la sua stirpe per sempre furono estinti.”

L’INVASIONE DEI LAVENESI

Dalla testimonianza del Rattazzo emerge la descrizione di una guerra tra povera gente costretta a difendere l’incolumità propria e quella del proprio paese dagli “invasori”, in questo caso i semplici confinanti di Laveno in cerca di un rifugio sicuro. La situazione che spostò lo scontro agli alti vertici tra i conti Cicogna e Borromeo, si risolse ricorrendo sbrigativamente  alle torce e al fuoco “purificatore” con il tacito consenso o la complice inerzia dei superiori ecclesiastici.

“Intanto il contagio continuava ad estendersi, e i preti di Laveno furono costretti a girare per le case e le baracche confessando e somministrando i sacramenti (…) poi le cose andarono di male in peggio, finché la gente fu costretta a cercar scampo alla campagna. Molti si rifugiarono nella terra di Mombello installandosi, senza darne il minimo avviso ai nostri deputati, nei fondi di Chiso e Brianza. (…) A tal punto i deputati di Mombello, benché riluttanti, ricorsero al conte Cicogna, delegato di Varese del presidente della Sanità di Milano, mentre io fui prescelto a rappresentarli con il prete Giò Besozzo. Con lui mi recai infatti a parlamentare a Varese e il conte Cicogna ordinò ai lavenesi di sgombrare la nostra terra.”

SCONTRO TRA I CONTI BORROMEO E CICOGNA

(…) Ma il conte Borromeo, loro feudatario, era di parere opposto, e i lavenesi dichiararono di riconoscere soltanto la sua autorità, non tenendo in alcuna considerazione l’ordine del conte Cicogna. (…) Allora il conte Cicogna impartì l’ordine ai deputati di Mombello di ricacciar fuori i lavenesi, e in caso di resistenza di distruggere col fuoco le capanne costruite nella nostra terra. Come infatti avvenne. (…) E i lavenesi inviarono memoriali nefandi al cardinal Federico Borromeo, accusando il rev. Bevilacqua (curato di Laveno – n.d.r.) come incendiario delle capanne. (…) Ma i superiori ecclesiastici risposero che ognuno doveva badare alla propria salute, e che qualsiasi mezzo era lecito, per cercar di conservarla e allontanar la peste.”

LA PESTE NON RISPARMIA MOMBELLO

Malgrado le maniere poco cristianamente forti e l’incendio delle capanne con i loro abitanti, la peste riuscì ad entrare a Mombello. La virulenza con cui si propagò in ogni dove è facilmente desumibile da queste poche righe:

“(…) Nella seconda metà di dicembre, si era verificato a Mombello il primo caso di contagio, e il 31 dicembre 1630 si ebbe la prima vittima: la signor Isabella Besozza di Casanova. (…) Non accadde nulla fino alla quaresima, nel qual tempo, per sfuggire al contagio, venne qui da Pallanza il signor Giuseppe Morigia, che morì in pochi giorni con il figlio e la nuora. Poco dopo morì di peste il barbiere di Laveno, e a Mombello Giacomo Persighetto stramazzò sul carro mentre portava il letame al Canvale (Fondo di Mombello – n.d.r.) (…) Il 2 maggio morì Angela, nuora del Persighetto, e a capo di otto giorni Elisabetta, sua figlia, che aveva lavorato come lavandaia a Pallanza, al servizio dei commissari Grit e Cavalièr, nelle purghe alle case degli appestati. Entrambe furono sepolte al Roncascio. (…) Nella campagna presso Laveno alloggiava la compagnia di soldati spagnoli del capitano Lagos, due dei quali, arraffate a Laveno certe lenzuola, vennero a pernottare a Mombello. Trascinati al Lazzaretto, dopo cinque giorni vi morirono e vi furono sepolti. Altri soldati mi obbligarono a mandare un letto  e un materasso al furiere della compagnia. Era il dì di Santa Barbara. Incaricai del trasporto Giuseppe Reggiore, che subito dopo essere stato al campo spagnolo si ammalò e morì al Lazzaretto. E così di seguito, contando paesani e forestieri, tra il 1630 e il 1631 perirono a Mombello cento persone.”

E NEMMENO LAVENO SCAMPO’ AL FLAGELLO

“(…) Per un certo tempo la morìa si placò. Ma durante le feste pasquali, una serva del signor Tinello si ammalò di peste, e fu sepolta nel cimitero della chiesa di san Rocco, proprio mentre il curato celebrava la messa. I fedeli rimasero perciò contagiati, e il morbo riprese a serpeggiare infuriando con inaudita violenza per parecchi mesi, e mietendo nel solo Laveno, bel centotrè vittime.”

LA RIPRESA

Dopo la peste ci fu un deciso incremento delle nascite e un’intensa ripresa delle attività economiche che avevano ricevuto un duro colpo da una moria che non risparmiò nessuno. E Gio Giacomo Rattazzo poté riprendere in mano la gestione dei conti annotando fatti di interesse privato. Il 17 febbraio 1636 registra: “La nascita di Clara, mia putta, battezzata dopo tre giorni, avendo per compare il signor Gio Besozzo da Petrarubea et per comare la signora Camilla Besozza, moglie del signr Antonio Maria Parlantino.”

E POI SCOPPIO’ LA GUERRA

Nel giugno dello stesso anno, i secolari nemici della Spagna e i loro alleati italiani invadono la Lombardia occidentale. Iniziava un poderoso scontro fatto di alterne vicende belliche ma anche di violenze e devastazioni sulla popolazione civile. Epica fu la Battaglia di Tornavento. Ma questa è un’altra storia.

 

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Mauro Carabelli

Giornalista

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